Perché i Simpson

I SIMPSON A SCUOLA

Molti ragazzi e ragazze guardano i Simpson ma senza coglierne tutti i significati. A scuola, invece, con la guida dell’insegnante, possono analizzare gli episodi migliori, accuratamente selezionati in base ai temi che trattano e ai valori che trasmettono.

Un altro motivo che giustifica l’uso dei Simpson a scuola è lo sviluppo della competenza culturale, che prevede la conoscenza delle principali opere culturali, comprese quelle della cultura popolare contemporanea.

Per approfondire il tema della religione nei Simpson, si può leggere Il Vangelo secondo i Simpson. Da Bart a Barth, in cui il teologo Brunetto Salvarani spiega come i valori etici e religiosi trasmessi negli episodi da lui analizzati siano spesso in sintonia con i valori cristiani.

UNA FORTUNATISSIMA SERIE TV

Da esattamente vent’anni (il debutto televisivo risale al dicembre 1989 sulla Fox) il fenomeno Simpson impazza sulle televisioni di tutto il mondo: dagli Stati Uniti – dove sono nati grazie alla matita del fumettista Matt Groening – all’Europa, dalla Russia alla Cina, fino al Medio Oriente. Homer & Company hanno sdoganato il cartone animato dall’essere soltanto un prodotto per bambini, aprendolo a una vastità di pubblico inattesa. Un successo suggellato da ben 23 Emmy Awards, tanto che nel 1999 “Time” la definì “la miglior serie televisiva del secolo” e, nello stesso numero del magazine, Bart fu inserito nella lista dei 100 personaggi più influenti del mondo (al 46° posto). L’anno dopo, le ciambelle di Springfield conquistavano una stella nella Hollywood Walk of Fame.Diciannove stagioni, quasi 400 episodi, i Simpson sono la serie animata più lunga mai trasmessa. E anche quella più discussa e studiata. I rigidi censori spengono il televisore, ma gli analisti più seri lodano il realismo e l’intelligenza dei testi, anche se spesso attaccano – giustamente – il linguaggio fin troppo crudo e la violenza di certi episodi, o le scelte talvolta estreme degli sceneggiatori.

Luca M. Possati, Le virtù di Aristotele e la ciambella di Homer, “L’Osservatore Romano”, 23 dicembre 2009

LA FAMIGLIA SIMPSON

l Simpson narrano la vita di una famiglia americana in un tipico Comune, Springfield, il cui nome è comune ad almeno 30 cittadine americane.

Homer è il capofamiglia, lavora come addetto alla sicurezza in una centrale nucleare, ma, a causa della sua lentezza, sul posto di lavoro non gode della stima di nessun collega. Il suo unico desiderio comunque è tornare a casa dopo una giornata di lavoro per mettersi davanti alla tv e mangiare pop corn, sandwiches e bere birra. Si tratta di un uomo privo di eleganza, penalizzato anche dal suo aspetto fisico, poco capace di dialogare, ma generoso. Quando va a dormire, a volte sussurra alla moglie: «Marge, sai che ti voglio bene», ma il loro rapporto è problematico e soprattutto privo di dialogo.

Marge fa la casalinga a tempo pieno, è la voce morale della famiglia, insegna ai figli (senza grande successo) a compiere il bene e a combattere il male ed è ancorata alle tradizioni. Purtroppo personifica anche la mamma iper-protettiva e invadente con uno strano passatempo: modifica continuamente la sua capigliatura blu iper-cotonata e molto alta, che utilizza di volta in volta come cassaforte, piccolo armadio e portafoglio. È bella dentro ma brutta fuori, in più porta il 47 di scarpa.

I Simpson hanno tre figli: il primogenito Bart (tradotto vuol dire monello) è il personaggio più popolare. Ha dieci anni e si vanta di esser l’ultimo della classe. In realtà lo è diventato per scelta, almeno viene riconosciuto e legittimato nel suo ruolo da una società che non considera nessuno. È furbo e contrario a qualsiasi regola, ama lo skateboard e la tv, mentre il suo passatempo più grande è fare scherzi al barista, Boe Szyslak, e al suo preside, Seymour Skinner.

La sorella Lisa ha otto anni ed è il cervello di casa Simpson. È vegetariana ed ecologista, ma anche anticonformista, progressista e ambiziosa, sogna in grande (vorrebbe diventare presidente degli Stati Uniti) e crede di essere tra le musiciste più brave al mondo. Invece quando suona il sax la gente esclama: «Più che musica, questo è inquinamento acustico».

Infine c’è Maggie, l’ultimogenita, ha un anno, non parla, tiene in bocca un biberon stereofonico e quando cerca di camminare cade in avanti. Saggiamente gli autori ripetono spesso una scena per far riflettere su un comportamento molto diffuso nelle famiglie: la piccola Maggie viene lasciata o dimenticata per ore davanti alla tv perché tutti possano stare tranquilli. L’equilibrio su cui si costruisce l’unità familiare gira intorno ad altri due personaggi: un gatto, Palla di Neve II, e un cane, Piccolo aiutante di Babbo Natale. In realtà la famiglia ha anche un altro membro, nonno Abe, che risulta però escluso e screditato dal resto dei membri della famiglia. Egli incarna sia l’abbandono degli anziani nella società occidentale degli anni Novanta, sia la memoria storica della famiglia, sia la saggezza e l’esperienza di vita. Come spesso accade agli anziani, anche nonno Abe, sergente durante la seconda guerra mondiale, vive di ricordi e aneddoti; però i Simpson non amano ricordare il proprio passato e i fallimenti vissuti, ma vogliono vivere il presente cercando di conquistarsi il futuro. Per questo il nonno è mandato in «esilio» senza nessuno scrupolo e risentimento nel Castello di riposo di Springfield, un ospizio privo di vita.

Francesco Occhetta, I “Simpson” e la religione, in “La Civiltà Cattolica”, n. 3848, 16/10/2010

LA RELIGIONE NEI SIMPSON

Dissacranti? Senza dubbio. Volgari? Forse qualche caduta di stile ogni tanto, assolutamente assolvibile. Geniali? Senza alcun dubbio. Provocatori? Noi che non siamo americani non capiremo mai davvero fino a che punto. Delicati? In alcuni punti fino all’estasi della più nobile poesia.

E cos’hanno a che vedere i Simpson con la Chiesa e il mistero di Dio rivelatosi in Gesù Cristo […]? Proprio per questo ultimo aspetto forse: la fede e la religione sono irrise (“Ah – Ah”, ci farebbe di continuo il teppistello Nelson) ma non escono mai perdenti. Alla fine non solo il buonismo dell’amore, ma proprio i valori della trascendenza, purificati dal bigottismo e dalle contraddizioni che a volte le istituzioni portano in seno, la fanno da padrone.

E allora la messa non è più noiosa. E anche se lo è rimane sempre frequentatissima.

E allora Dio è meno moralista di certi suoi ministri perfettini.

E allora la Bibbia e il Vangelo mostrano che, anche se colpiti dalla sferza della satira, non sanguinano, ma anzi dimostrano che il loro valore rimane luminoso e puro in qualsiasi cornice sia inserito.

Perché proprio questa è la sensazione che resta in bocca dopo aver gustato la religiosità dei Simpson. Non di colpi dati per far male, ma quasi di preghiere elevate per liberare la fede dalle contraddizioni in cui spesso il nostro poco coraggio la rinchiude.

Mentre altri aspetti della vita umana sono davvero massacrati da Homer e amici, quello religioso, pur sotto le loro pesanti provocazioni, resta il finale in cui tutto finisce bene e finisce in poesia. Dove ti ritrovi come fedele cristiano: con quei dubbi e alla fine quelle liberanti intuizioni.

Diego Goso, Il Vangelo secondo… I Simpson. Dalla birra… alla Bibbia, Effatà, Cantalupa (To) 2010

IL GIUDIZIO DE “L’OSSERVATORE ROMANO”

Teneri e irriverenti, scandalosi e ironici, sgangherati e profondi, filosofici e a tratti perfino teologici, sintesi impazzita della cultura pop e della tiepida e nichilista middle class americana. Su di loro è stato detto e scritto di tutto e di più, ma di certo quella tribù di facce gialle non ce la dimenticheremo facilmente. Li si ami o li si odi, Homer J. Simpson e la sua stralunata famiglia hanno lasciato il segno, e non solo nel piccolo mondo dei cartoons. Perché, forse, senza la mitica esclamazione “D’oh!” del grasso Homer con la birra “Duff” in mano – magari seduto al bar Moe’s a perdere tempo – senza le disavventure dei suoi figli, l’impenitente Bart e la saputella ecologista Lisa, senza i continui rimproveri della moglie, la casalinga disperata e azzurrocrinita Marge, e senza il leggendario “certo certosino!” dell’odiato bigotto Ned “Neddy” Flanders, forse, senza tutta la spudorata mediocrità degli abitanti di Springfield (Kentucky?), oggi molti non saprebbero ridere. […]

C’è addirittura chi si è spinto fino ad abbozzare le tracce di una teologia simpsoniana. Sì, teologia. Perché tra i tanti temi che entrano in gioco nella vita della scanzonata comunità di Springfield quello di Dio, e del rapporto tra l’uomo e Dio, è uno dei più importanti (e più seri). Dalle interminabili prediche del reverendo evangelico Lovejoy – alle quali corrispondono regolarmente i sonni di Homer nei banchi in prima fila – al radicalismo ingenuo di Flanders e dei suoi figli biblisti maniacali, fino ai monologhi dei protagonisti che si rivolgono direttamente all’Altissimo. Anche se, in linea con lo stile della serie, non mancano i riferimenti pungenti alla confusione religiosa e spirituale dei nostri tempi, come quando Homer in preda al panico si chiede: “Ma Marge, e se avessimo scelto la religione sbagliata? Ogni settimana faremmo solo diventare Dio più furioso!”. Specchio insieme dell’indifferenza e della necessità che l’uomo moderno prova nei confronti del sacro, Homer trova in Dio il suo ultimo rifugio, anche se a volte ne sbaglia clamorosamente il nome: “Di solito non sono un uomo religioso, ma se tu sei lassù, salvami… Superman!”. Errori di percorso, perché in realtà i due si conoscono bene. In un episodio, mentre la sua casa sta bruciando e Springfield è minacciata dai demoni, Homer decide di chiedere udienza proprio a Lui. Una scala mobile tra le nuvole lo porta al Suo ufficio, dove campeggia, in bella mostra sulla scrivania, la scritta: I believe in Me.

Luca M. Possati, Le virtù di Aristotelee la ciambella di Homer, “L’Osservatore Romano”, 23 dicembre 2009

IL GIUDIZIO DE “LA CIVILTÀ CATTOLICA”

Dopo 24 stagioni della serie animata più trasmessa nella storia della tv, a molti genitori rimane una domanda: «Permetto ai miei figli di vedere i Simpson?». La preoccupazione è fondata sulla paura che un linguaggio crudo e spesso volgare, la violenza di certi episodi o le scelte estreme di certe sceneggiature influenzino il comportamento dei loro figli. Ma il realismo dei testi e degli episodi potrebbe essere l’occasione per vedere alcune puntate insieme, e coglierne gli spunti per dialogare sulla vita familiare, scolastica, di coppia, sociale e politica. Solamente in questo modo sarà possibile comprendere il linguaggio dei Simpson, il loro contesto, la loro cultura e le domande di senso che ogni puntata pone.

Nelle storie dei Simpson non c’è mai lieto fine, ma non c’è nemmeno, come alcuni autori affermano, solamente cinismo e sarcasmo. Si racconta la realtà e la possibilità di trovare un senso in quella quotidianità che spesso schiaccia e umilia le persone. Così le giovani generazioni di telespettatori vengono educate a non illudersi. In ogni personaggio emerge ottimismo e pessimismo, la consapevolezza di dover vivere un ruolo sociale e il sogno di voler essere liberi. Sui loro volti e nelle loro parole è impresso lo smarrimento dell’uomo contemporaneo e i condizionamenti a cui è sottoposto. Per questo motivo le giovani generazioni di telespettatori non sono più educate a un lieto fine, ma devono confrontarsi con una realtà dura e a volte paradossale, dove la famiglia sembra essere l’unico rifugio. Fuori invece della propria casa vige la legge della giungla: «Vinca il migliore». Ma tale prospettiva, che vorrebbe essere realista e obiettiva, rischia di minare la fiducia nell’altro e nel futuro, che invece si costruisce con lo sforzo e il contributo di tutti.

Il luogo della salvezza è l’unità della famiglia-istituzione; questa infatti «permane al centro di tutto il plot narrativo: sbeffeggiata di continuo, ovvio, ma anche riconosciuta come l’unico (e l’ultimo) autentico punto di riferimento in chiave sociale, e a conti fatti il più solido, con un reciproco e ben saldo attaccamento fra ogni suo membro». Tuttavia l’unità familiare non è costruita sulla promozione del bene comune o su scelte di gratuità in favore dei più deboli. Quando Lisa parla della sua attività con i poveri, Homer fa emergere quell’egoismo sociale che rischia di condizionare lo sviluppo umano delle nostre società: «Quello [il volontariato] non è un lavoro, è una perdita di tempo. Quanto ti possono pagare i poveri? Niente! Che soddisfazione ricavi dall’aiutarli? Nessuna! E del resto, chi vuole aiutare i poveri? Nessuno!».

Rimane un ultimo aspetto su cui riflettere. I Simpson rimangono «eternamente giovani», non mutano, rimangono uguali a se stessi. La dimensione del tempo che passa, le scelte da compiere nella storia, l’uso delle nuove tecnologie, la dimensione della malattia e della morte, non sono quasi mai temi trattati. Invece, se si vuole parlare della realtà e dell’umanità che l’uomo condivide, questi temi andrebbero seriamente affrontati dagli autori.

Infine è vero che gli episodi pongono più enfasi sulla religione come istituzione che sulla vita di fede intesa come sequela di Cristo fatta di preghiera e aiuto al prossimo.

Anche nei Simpson ci sembrano nascosti alcuni spunti che si trovano pure nel Vangelo, come quando Bart afferma: «Per poter salvare me stesso devo salvare gli altri». Basterebbe che i milioni di ragazzi che ogni giorno seguono la serie interiorizzassero questo insegnamento per sperare in un mondo migliore.

Francesco Occhetta, I “Simpson” e la religione, in “La Civiltà Cattolica”, n. 3848, 16/10/2010